domenica 20 aprile 2014

Vocazione e destino dei lombardi.

Gianfranco Miglio: vocazione e destino dei lombardi.

( Appendice di: La Lombardia moderna ("Civiltà di Lombardia" Milano 1989. Blecta Editrice)





 I. Una «popolazione» diventa un «popolo» (e quindi un aggregato politico) quando concorrano a darle unità: a) una (relativa) omogeneità di stirpe e b) il fatto di insistere su di un territorio abbastanza uniforme e soprattutto ben delimitato.

Queste due condizioni sono storicamente mancate ai lombardi. In primo luogo perché, dal punto di vista etnico, essi sono il risultato della successiva, secolare stratificazione di stirpi molto eterogenee (liguri, celti,latini, goti, bizantini, longobardi, franchi eccetera) tra le quali la «Longobarda», se ha consegnato loro il nome, non è certo la componente che abbia lasciato un'impronta antropologica particolare.

In secondo luogo perché l'area occupata dall'etnia lombarda - nella convinzione degli stessi protagonisti e degli osservatori esterni- non ebbe mai 'confini' stabili e precisi; nel suo nucleo minimale si restrinse fra il Ticino e l'Adda, fra il Po e le Prealpi: ma, in tempi diversi, si estese a porzioni consistenti del Veneto, dell'Oltrepò e dell'attuale Piemonte («lombards»vengono chiamati, nel XIII secolo, operatori finanziari di Asti e di Chieri). Si potrebbe dire che, in determinate congiunture storiche, i lombardi furono visticome il nucleo gravitazionale di un'area, identificabile o come la vaga «Insubria»(cara a Carlo Cattaneo) o come la moderna «Padania», A determinare questa fluidità geografica contribuì certo il fatto che i fiumi della valle del Po (e, in fondo,lo stesso corso d'acqua che creò la valle) non furono mai ostacoli insorrnontabili,e quindi «confini naturali» apprezzabili. Se mai va osservato che, mentre in senso longitudinale - da occidente a oriente - la valle del Po rivela una sostanziale omogeneità (le pianure piemontese, lombarda e veneta presentano infatti caratteristiche ambientali abbastanza uniformi), una netta difformità si registra nella direzione nord-sud: dal punto di vista ecologico e geoeconomico le vallate alpine, la fascia prealpina e la grande pianura umida sono fatte per ospitare popolazioni nettamente diverse: infatti, che cos'ha in comune, dal punto di vista antropologico, un valtellinese con un abitante della Bassa irrigua?

II. Ma la fluidità geografica dell'etnia lombarda ha una radice che proviene dalla stessa natura - cioè dal modo di comportarsi - dei suoi componenti.

Quando il cronista Ottone di Frisinga (congiunto di Federico I di Hohenstaufen) scrive: «Tutto il territorio della Lombardia è interamente suddiviso tra le città», egli non rileva soltanto l'assenza di grandi entità di tipo signorile-feudale (e il gravitare delle campagne invece sui contigui centri urbani) ma disegna anche una costellazione di città come risultato del particolare modo di vivere di quella popolazione.

Lombardia, in altre parole, diventa sinonimo di stile di vita urbano, di civiltà cittadina, con tutto ciò che a tale modello si lega: la città si identifica con il suo mercato - anzi: è il mercato - cioè il luogo in cui si scambiano i prodotti agricoli e i manufatti e, quindi, in cui s'incontrano i contadini, gli artigiani e soprattutto i mercanti.

Questi ceti (specialmente i due ultimi, che abitano nel borgo) sono i protagonisti di una intensa vita economica, regolata da norme consuetudinarie e pattizie, e da istituzioni create e difese dagli stessi utenti: Constitutiones e poi, al vertice dello sviluppo, Statuti, in cui si traduce e si sviluppa l'accezione «moderna» di una convivenza «secondo diritto». Giudici e notai sono così le categorie professionali che completano la struttura sociale della città lombarda.

Questo modo di concepire la vita e i rapporti umani da una angolazione individuale e "privata" (qui sta la sua «modernità») sfocia in una robusta tendenza a creare associazioni («societates», «universitates») atte a difendere gli interessi particolari, anche predisponendo i necessari mezzi coercitivi (militari).

Tali associazioni - durevoli nel tempo, quanto invece instabili appaiono le istituzioni politiche formali - sono le vere protagoniste della complessa storia civile delle città lombarde, e anche là dove le fonti documentarie tacciono, si intuisce la loro decisiva presenza nei rivolgimenti e nelle restaurazioni.
Ogni città lombarda è un cosmo a sé stante, mai suoi mercanti sono ben decisi a estendere i loro traffici fin dove sia materialmente possibile: da qui nasce la «Lom­bardia» prima di tutto come costellazione conflittuale di centri urbani economicamente in concorrenza fra loro, e poi come area dalla quale i «mercatores», gli uomini d'affari, s'irradiano in tutto il mondo.

La conflittualità interurbana, come è perennemente innescata dagli interessi mercantili, così viene temporaneamente accantonata soltanto in vista di evidenti anche se transitori vantaggi. La Lombardia dei Comuni conosce così il fenomeno delia «lega», dell'alleanza militare per ottenere comuni obbiettivi economici: è il caso delia guerra decennale condotta all'inizio del XII secolo da Milano, Lodi, Crema, Cremona, Pavia, Bergamo e Brescia, per sottrarre al vescovo di Como il controllo dei valichi del Lucomagno, dello Spluga, del Giulio e del Settimo,fondamentali vie del traffico verso il Nord.

È ancora il caso della «Lega lombarda», costituita per affrancare i Comuni dagli obblighi e dai carichi fiscali verso il Sacro Impero.Ma - anche se in questa seconda occasione si ebbero strutture istituzionali non del tutto effimere -regola dominante fu l'impossibilità di limitare stabilmente la sovranità dei singoli Comuni.

La civiltà urbana - con il suo ideale dinamico del rischio e del profitto, contrapposto a quello statico della rendita garantita (politica) su cui si basa la società agrofeudale - ha tenuto a battesimo il mondo «moderno» e, come tale, è comparsa dappertutto in Europa a cominciare dal XII-XIII secolo: ma in terra lombarda il fenomeno si è manifestato molto per tempo e contratti più chiari che altrove. Non è per caso se, a partire dal tardo Medioevo (e ancor oggi) nell'Occidente economico, «lombardo diventa sinonimo di «uomo d'affari».

Naturalmente una tale preminenza del «privato» e dell'economia comporta, nei borghi lombardi, un particolare rapporto dei cittadini-mercanti con le istituzioni «politiche». Queste ultime sono sempre state concepite infatti come strumentali rispetto alle esigenze dei ceti economicamente attivi, mentre, per converso, i rapporti di potere tradizionale (militare-feudale) venivano utilizzati dai gruppi sociali, ancora legati all'opposto modello di esistenza.

Nulla fornisce un'idea più chiara del carattere «serviente» assunto dalla politica nella concezione lombarda che l'aprire gli Statuti tardo-medioevali di una nostra città: le norme «costituzionali» relative all'organizzazione dei poteri e degli uffici sono soltanto la parte introduttiva di un contesto il cui corpo principale è rappresentato dalle regole di diritto sostanziale e processuale, civile, commerciale e penale.

Anche quando le parti coinvolte nelle contese politiche assumono la qualificazione di «guelfi» e «ghibellini», dietro a queste pure etichette non c'è affatto il contenuto ideologico e il pathos che si riscontrano altrove.

Il regime «consolare» -con questi magistrati investiti soprattutto della funzione giurisdizionale, che ereditano dal vescovo - rappresenta il primo equilibrato assetto costituzionale della città lombarda. La pacificazione dei conflitti concorrenziali e il contemporaneo vivace sviluppo dell'attività economica provano la corrispondenza di quel regime ai bisogni dei cittadini.

Ma è forse l'istituto del «podestà» che meglio incorpora la vocazione privatistica dei lombardi. La città si affida a un tecnico straniero, pagato come professionista, e assunto per tempo determinato; lo si cerca neutrale: naturalmente se ha un'inclinazione questa non è ideologica, ma corrisponde in genere alle esigenze della parte economica prevalente nel Comune.

Certo i nostri avi cercarono di cautelarsi contro la dilatazione del potere politico, adottando il criterio delle cariche formali a breve e brevissimo termine (lo fece anchela Signoria): un metodo che veniva naturalmente integrato con l'opposta durata vitalizia, e addirittura l'ereditarietà, della leadership nelle associazioni a base economico-militare (esemplare il caso degli Anziani della «Credenza di Sant' Ambrogio»).

Ma quando, fra il Due e il Trecento, la grande crisi degli ordinamenti medioevali e del principio di gerarchia impone in tuttal'Europa la ricostituzione di un nuovo «ordo» politico - e in pratica nasce lo «Stato moderno» - anche i Lombardi sperimentano l'istituto della Signoria.

III. Questa nasce, come altrove, dalla polarizzazione della lotta economico-politica su due soli grandi «clan» famigliari, dalla vittoria di uno di questi e (soprattutto) dal principio per il quale ai vinti non è riconosciuta alcuna possibilità di rivalsa, e la casata vincitrice occupa, per sempre, con i suoi seguaci e clienti, ogni posizione di potere.

Nell'organizzazione della Signoria, come tipo di governo, si rispecchia e si sviluppa la sofisticata tecnica amministrativa, finanziaria e contabile sperimentata e affinata già nel Comune mercantile. Fondamentali sono la razionalità degli ordinamenti. L'idea del principato come azienda e la certezza della durata del primo per il principio dell'ereditarietà mutuato dalla seconda. Max Weber ha del resto sottolineato da tempo l'importanza delle Signorie urbane come modello di gestione economica per la fondazione dello Stato moderno.

Ma in Lombardia, e a Milano in particolare, il Principe appare come un capo-azienda condizionato dai magnati­ finanzieri e dalle famiglie che gli garantiscono le risorse economiche per governare.
Esemplare è il ruolo dominante che Vitaliano Borromeo, la sua casata e le famiglie che gli si collegano assumono, prima nell'effimera esperienza della «Repubblica ambrosiana», e poi nel consolidamento della Signoria di Francesco Sforza: i poderosi apporti finanziari al Tesoro (appaltato a uomini d'affari) e al Banco di Sant' Ambrogio devono essere ripagati dal Signore non soltanto con l'attribuzione al Borromeo del gettito di alcuni dazi, ma - soprattutto - con l'impegno a considerare intoccabili gli Statuti cittadini, e, in particolare quelli dell' «Universitas mercatorum mediolanensium». Questa potente corporazione, nata nell'età comunale, non raccogliesoltanto i grandi mercanti (finanzieri e contemporaneamente proprietari fondiari) che prestano danaro al Principe, ma disciplina, con assoluta autonomia, il commercio interno ed esterno, gestito, in posizione di monopolio, dai suoi affiliati.

Questi operatori economici sono i veri padroni del Ducato: costituiscono un'aristocrazia perennemente rinnovata dal successo negli affari, ma anche consolidata dalla prassi dell'investimento della ricchezza mobiliare nella rendita fondiaria, e dell'opposta riconversione.

La grande politica estera di Francesco Sforza reca il marchio delle esigenze economiche a cui deve servire: la spinta su Genova, porto e sbocco mediterraneo alternativo e concorrenziale rispetto alla storica rivale Venezia, costituisce la prova di tale verità. Ma forse nulla documenta meglio lo spregiudicato predominio della mercatura sulla politica, del fatto che a Milano esistesse allora un gruppo di pressione tenacemente filo-veneziano, costituito dagli operatori abituati a servirsi delle banche e dei fondachi della Serenissima.

Malgrado la razionale coerenza della sua struttura e delle retrostanti forze economiche, non si può dire tuttavia che la Signoria - viscontea e sforzesca - abbia raggiunto l'obiettivo di fondare (come si dice) un vero «Stato regionale». Glielo impedì proprio l'atavico particolarismo delle città lombarde, ora rafforzato dalla presenza in ogni centro di un ceto economico analogo (anche se non così «moderno») a quello attestato nella capitale. Questa aristocrazia urbana accetta di pagare i tributi richiesti dal Duca e legittimati dalla sua prevalenza militare, accetta il controllo del «Referendario» e le pretese del «Maestro delle entrate» ducali sulle finanze comunali, ma, forte delle proprie risorse economiche private e soprattutto delle garantite autonomie giurisdizionali, consolida il suo predominio sul rispettivo contado e perpetua la realtà della città lombarda come «duro nocciolo», indissolubile in qualsiasi quadro politico più vasto. Lo «Stato» lombardo non è nato allora (e presto dovremo riconoscere che non è nato mai). La Signoria fu soltanto il dominio di Milano sugli altri borghi lombardi; così è impossibile scrivere una storia politica della Lombardia: si possono soltanto narrare le vicende civili delle singole città, e in particolare della più potente (o prepotente) di quelle, e cioè di Milano.

La tragica fine di Cicco Simonetta, il grande tecnico dell'amministrazione al servizio di Ludovico il Moro, che fallì nel compito di smobilitare le residue strutture famigliari-feudali della Signoria sforzesca per trasformarle nell'impalcatura di uno Stato «moderno» - specialmente se confrontata con l'analoga impresa invece riuscita, proprio in quegli anni, al collega Thomas Cromwell nei confronti del regno dei Tudor - assume quasi un valore emblematico.

Va rilevato peraltro che la Signoria mancò anche lo storico obbiettivo di mantenere e ampliare il controllo lombardo dei valichi alpini, di quei passi settentrionali attraverso i quali le carovane delle mule portavano mercanzie nella «vera» Europa, o le traevano verso la Pianura Padana.

Schiacciata la minore Signoria comense dei Rusca- che aveva ereditato dal vescovo il controllo dei varchi alpini, come questi l'aveva raccolto dall'amministrazione romana - i duchi di Milano persero, con Bellinzona, Lugano e Chiavenna, la padronanza del Lucomagno, dello Spluga, del Giulio e del Settimo.
Certo, lo straordinario exploit militare (politico-mercenario) degli elvetici fra Quattro e Cinquecento rendeva molto arduo anche soltanto immaginare una strategia volta a recuperare il possesso del crinale alpino: né i Visconti négli Sforza avevano qualcosa di simile alla cavalleria pesante aristocratica francese che a Novara, e soprattutto a Marignano, riuscì a spezzare le falangi irte di picche dei «Landsknechte».

Ma non si vide un'azione diplomatica ispirataalla «politica dei passi»: e ciò malgrado i mercanti lombardi continuassero a svilupparele relazioni economiche con il Nord.

IV. Il tradizionale distacco della società lombarda dai rapporti e dagli impegni politici continua - anzi: si accresce - con le dominazioni straniere, spagnola prima e poi austriaca. Così come continua la concentrazione delle energie nel campo economico.

La seconda metà del Cinquecento vede infatti accrescersi l'attività produttiva (agricoltura e segnatamente artigianato) e di scambio, e quindi una consistente prosperità delle città lombarde, egemonizzate sempre da un patriziato perennemente rinsanguato da imprenditori «ennoblés». 

L'autorità e la fortuna della milanese «Camera dei Mercanti» - erede dell'antica«Universìtas mercatorum»- e le Novae Constitutiones ottenute da Carlo V sono ilsegno palese del primato dell' economia, che continua nella vita quotidiana deinostri avi. Ma forse, sul piano istituzionale, l'esperienza più significativa diquesto tempo è la «Congregazione dello Stato», cioè l'organo «rappresentativo» incui convergono i delegati (veri ambasciatori) delle singole città per negoziarecon le autorità centrali (e in contesa fra loro) l'ammontare e la ripartizione deicarichi fiscali. In questo embrione di «parlamento federale» sono ben rispecchiatila vocazione non-unitaria e non-statale, e il particolarismo irriducibile dei Iombardi. 
Impegnati nel grande gioco per l'egemonia europea,gli spagnoli non potevano cogliere la peculiarità del problema dei valichi alpinidal punto di vista del microcosmo lombardo. Così, quando dovettero legalizzare eutilizzare le elevate capacità militari di Gian Giacomo de' Medici («il Medeghino»)- soldato-avventuriero che dal lago di Como aveva minacciato Chiavenna e fatto pauraai Signori delle Leghe Grige - lo mandarono. in Fiandra e poi a terrorizzare i senesi. Il problema dei passi alpini si pose invece in modo drammatico nel Seicento, quando si aprì la grande crisi della Guerra dei Trent'anni, e. nel quadro di questa, la Spagna dovette combattere le due guerre di Valtellina. Alleati delle Leghe Grige,i francesi, prima con il marchese di Coeuvres, poi con il duca di Rohan, dimostrarono che il controllo dei valichi consentiva di portare le operazioni militari immediatamentesul territorio della Lombardia spagnola: non fosse stato per le esitazioni di Richelieu, che diffidava del condottiero ugonotto, il duca di Rohan avrebbe potuto marciare su Milano.

E quando gli imperiali vollero mandare, dalla PianuraPadana in terra tedesca, l'esercito che avrebbe poi vinto contro i riformati labattaglia decisiva di Nordlingen, non potendo utilizzare nemmeno il valico di Santa Maria per scendere in Tirolo, furono costretti a «inventare» e a usare per la prima volta il passo trasversale dello Stelvio (vero e proprio) facendo rotolare uominie bronzi giù per la ripida testata della Val Venosta.

Questo uso politico-militare dei gioghi alpini sembrava toccare soltanto temporaneamente gli interessi dei mercanti lombardi: e invece la deviazione del traftico da quegli itinerari, durata qualche decennio, produsse un effetto di grande portata: almeno a mio parere. Il ruolo svolto per le comunicazionicon il Nord dal «Cunnus aureus» (Spluga), dai passi della Val Bregaglia e dalla «via d'Alemagna» (Bormio e «Torri di Fraele») - un ruolo dominante per tutto il Medioevo e la prima età moderna - si riduce drasticamente a partire dal Seicento.

Il lago di Como cessa di essere la via diretta e naturale per andare in Germania: prevalgono nell'abitudine i valichi più occidentali o più orientali, con l'allungamento dei tragitti, e con conseguenze ancora da riconoscere sulla distribuzione dello sviluppo economico nella sottostante pianura.

V. Il Seicento, con la crisi e poi il declino dell'egemonia spagnola, e con le gravissime conseguenze dell'ultima grande guerra «di religione», fu per buonaparte dell' Europa - e in modo particolare per i lombardi -un'età di stagnazione e di penuria economica. Ma le tradizionali risorse sociali non vennero distrutte: con l'avvento degli Absburgo d' Austria, e del loro razionale governo, cominciò una nuova età di ricostruzione e di crescita.

C'era ora una pubblica amministrazione i cui quadri determinanti, per lingua e per stile, apparivano veramente «stranieri», e dunque non «consociabili» (e corruttibili) come quelli spagnoli. Da questa macchina - disponibile a un incessante processo di autoriforma (per il quale chiedeva e otteneva la collaborazione degli amministrati) - venivano forniti punti di riferimento normativi chiari e sicuri, assistiti da un potere coercitivo sconosciuto alle «grida» spagnole. Erano le certezze di cui avevano bisogno i ceti economici lombardi per scatenare le loro attitudini imprenditoriali. Uno strato di medi e grandi affittuari, muniti di capitali, trascinò la proprietà fondiaria nobiliare nell'avventura dell'agricoltura come industria: razionalizzazione e innovazione dei processi produttivi nelle campagne e trasformazione dei prodotti agricoli (insieme con l'allevamento bovino, l'attività casearia e la bachicoltura) aprirono le porte alla vera e propria rivoluzione industriale e gettarono le basi della prospera Lombardia del XIX secolo.

La collaborazione della rigorosa amministrazione austriaca con i potentati finanziari locali trovò forse il suo momento saliente nell'appalto unificato della riscossione delle imposte, affidato alla compagnia della «Ferma generale» di Antonio Greppi: un «grande privato» che sembra rinverdire l'archetipo di Vitaliano Borromeo, non fosse altro per il colossale prestito concesso al governo, e per la decisione con cui egli seppe farsi attribuire, insieme con l'appalto, mezzi coercitivi propri di un pubblico potere. 
Ma gli Absburgo corrisposero alle attese dell'economia lombarda anche con la diffusione delle conoscenze tecniche (facendo tradurre peresempio l'avanzato manuale di agricoltura di Ludwig Mitterpacher, e mobilitando i parroci per divulgarne gli insegnamenti) e - soprattutto - investendo cospicue risorse nel campo delle comunicazioni stradali e fluviali e del loro miglioramento.E in questo settore che si deve registrare finalmente una «politica dei valichi»: la riattivazione del passo di Sant'Jorio, la creazione della rotabile del Maloja (per la quale venne cercata e ottenuta la collaborazione dei Grigioni), la costruzionedella carreggiabile orientale del Lario e la strada ardita del passo dello Stelvio.

L'origine e l'utilizzazione militare di qualcuna di queste arterie non sminuisce il merito di un'amministrazione che avrebbe avuto invece altrettanto interesse a instradare i traffici lombardi attraverso le Alpi orientali.

VI. Come in tutte le terre che da tempo stavano sperimentando l'assolutismo illuminato, anche nelle città e nelle campagne lombarde la Rivoluzione francese rappresentò un'esperienza per un verso piuttosto estranea, e per l'altro abbastanza scontata. La contrapposizione fra aristocratici e borghesi (che del resto, anche in Francia, più che causa sembra ormai sia stata effetto della Rivoluzione) non aveva molto senso da noi: la comune vocazione per gli affari e per l'intrapresa economica saldava vecchia nobiltà e borghesia emergente in un cetodi notabili, tanto solidale quanto aperto a un continuo processo di ricambio. Anche perciò, l'antica diffidenza lombarda verso le qualificazioni e le contese politiche consigliò il movimento giacobino e le sparute minoranze inclini a «fare come in Francia». a non adottare il radicalismo settario prevalso invece in altri Stati italiani. Così pure la decisa secolarizzazione e alienazione dei beni ecclesiastici - che mise sul mercato nuove risorse per il notabilato imprenditoriale - non costituì un evento inedito: preceduta, com'era stata, dall'analoga iniziativa di Giuseppe II.

Piuttosto, alla fine dell'avventura napoleonica,si vide quanto scarsa fosse l'inclinazione dei lombardi ad accorparsi in una comunitàpolitica autonoma: sebbene avessero costituito il nucleo centrale, prima della Repubblicacisalpina e poi del Regno d'Italia. e quantunque Milano fosse stata per alcuni annila capitale di un vero Stato (ancorché a «sovranità limitata»),il sogno accarezzatoda Francesco Melzi d' Eril e dai cospiratori dell'aprile 1814, di erigere uno Statoindipendente, padano o almeno lombardo, svanì come nebbia al sole.
Senza dubbio il duro «protettorato» di Bonaparteimpedì che si formasse, almeno nella capitale, una classe politica degna di questonome; e la sconfitta militare tolse, alle velleità di resistenza degli ufficialidella disciolta Armata d'Italia, il carisma aggregante necessario; ma la veritàè che (come bisognerà riconoscere più avanti) la terra lombarda non genera uominidi Stato.

In ordine al cruciale problema dei rapporti conil Settentrione europeo, il trattato di Campoformio ricongiunse la Valtellina allealtre province della regione, alleggerendo, per così dire, la pressione elveticasui valichi tradizionali. Tuttavia va rilevato che il breve dominio francese sembraabbia privilegiato (per intuibili ragioni di contiguità geografica) gli itineraripiù occidentali del Gottardo e del Sempione: entrambi però saldamente in mano aglisvizzeri.

VII. Nonesistono rilevazioni, che non siano più o meno agiografiche, dell'attitudine deivari strati sociali, nelle città e nelle campagne lombarde, a proposito dei progettidi unificazione nazionale e dell'introduzione di istituzioni «rappresentative».E forte il sospetto che,se non ci fosse statala pressione ideologica dei circoliliberali piemontesi e degli esuli lombardi a Torino, battistrada della politicad'espansione della monarchia sabauda, il ripudio del dominio austriaco non avrebberaggiunto così rapidamente i livelli operativi a cui effettivamente pervenne: troppisettori dell'economia lombarda (si pensi per esempio alla produzione dei filatie dei tessuti di seta, assistita anche sul piano finanziario) godevano di condizioniprivilegiate e non avevano molte ragioni che li spingessero a uscire dal mercatodell'Impero absburgico. Del resto, anche dopo l'unificazione, l'economia lombardacontinuò a essere orientata verso i mercati d'oltralpe più che verso quelli dellapenisola e del Mediterraneo.    
La guerra del 1859 (a differenza di quella del1848) e le connesse operazioni diplomatiche passarono sulla testa della maggiorparte delle nostre popolazioni. Ma è soprattutto esemplare il modo con il qualela Lombardia venne annessa allo Stato piemontese. Prima ancora che si iniziasserole operazioni militari, Cavour incaricò una commissione di quattordici emigratilombardi «moderati» (la «Commissione Giulini») di preparare i decreti con i qualila regione sarebbe stata unita al Regno di Sardegna. I commissari - prevalentementenobili, ma quasi tutti esperti di affari economici - in soli diciassette giornistesero, motivandoli, i testi di trenta decreti, con i quali si sarebbe dovuta realizzare«l'immediata unione politica della Lombardia cogli Stati Sardi». L'assetto amministrativoconseguente era previsto come «temporaneo», perché i commissari si auguravano che,nell'ordinamento definitivo dello Stato nazionale, diverse istituzioni austriache,migliori di quelle piemontesi, potessero essere sostituite a queste ultime.

Essi erano preoccupati che risorgesse il «municipalismo»,manifestatosi nell'insurrezione del 1848 e concausa di quel fallimento politico-militare;ma, soprattutto, temevano che riprendesse piede la sinistra mazziniana e repubblicana.Facendo leva anche su queste apprensioni, Cavour (e poi Rattazzi), usò degli strumentiapprontati dagli esuli lombardi, soltanto quelli che assicuravano il passaggio algoverno piemontese dei poteri fino a quel momento esercitati dal Luogotenente austro-ungaricoe per il resto estese semplicemente alle province lombarde l'autorità dei ministeritorinesi. Caddero subito, in altre parole, le speranze di una vera autonomia amministrativa,e perfino venne giudicata «assurda» la proposta di mantenere per qualche tempo,a tutela di alcuni interessi lombardi, la barriera doganale con il Piemonte: leesigenze economiche dei nuovi sudditi dovevano essere subordinate a quelle dei vecchi.

La sbrigativa annessione, operata dal governo sabaudo,suscitò amare reazioni negli ambienti politici lombardi: ma i fatti compiuti finironoper essere accettati. La nuova classe politica si dimenticò perfino di far celebrareil referendum, che pur era stato ventilato per consacrare, con la volontà popolare,la scomparsa della Lombardia come entità indipendente.
In fondo ciò che volevano i ceti trainanti dellaregione era che, all'ormai traballante egemonia austriaca, si sostituisse al piùpresto una nuova solida autorità. Perciò, più il governo piemontese mostrava disaper comandare, e più veniva riconosciuta la sua legittimità. Il Piemonte - a differenzadella Lombardia (e tolte le province contigue a quest'ultima) - era sempre statoterra più di signorie feudali che di rissose borghesie cittadine: la sua solida(e magari un po' rozza) monarchia era l'istituzione che mancava ai lombardi percontinuare ad attendere (alla sua ombra) ai propri affari. Ai membri della «CommissioneGiulini» e agli altri fuorusciti che tanto avevano contribuito al buon esito dell'operazione,furono attribuite mansioni amministrative non di primo piano; parecchi di loro venneropoi fatti senatori del Regno: ma nessuno mostrò la tempra di uomo di Stato, se sifa eccezione per il valtellinese Emilio Visconti Venosta, che divenne tuttavia soprattuttoun buon tecnico della politica estera italiana.

Questo rarefarsi della classe politica lombardanon era un fenomeno occasionale: già si è visto a più riprese che anzi il «filorosso» conduttore della storia dei lombardi è la tendenza di questi a lasciare adaltri l'esercizio del potere, per concentrarsi sull'attività economica e, se mai,condizionare da questa sede chi il potere detiene. Soltanto accettando un tale puntodi vista si può capire perché mai, da quando fanno parte dello Stato nazionale,i lombardi non abbiano generato alcun uomo politico di prima grandezza. Si sonofermati agli Zanardelli e ai Vanoni. mentre i veri statisti della storia italianasono in genere piemontesi o figli delle regioni centromeridionali. Il lombardo èrimasto sempre e orgogliosamente un «lombard»: per eccellenza un uomo d'affari.

La radice della vocazione «a-politica» (O anti-politica)dei lombardi la ricercata proprio nel cosmopolitismo congenito dell'operatore economico:non è per caso se, mentre gli abitanti delle varie parti d'Italia, quando risiedonoall'estero, costituiscono delle nostalgiche «famiglie» regionali, si cercherebbeinvano invece anche una sola «famiglia lombarda».
Certo può sembrare paradossale che un popolo cosìpoco incline a riconoscere e affermare la propria identità sia quello, tra le gentiitaliane, a cui è stata dedicata la celebrazione apologetica forse di più alto livello:alludo al grande, documentato affresco tracciato da Carlo Cattaneo, nel 1844 (dunquequando ancora vigeva la dominazione austriaca), con le sue Notizie naturali e civilisu la Lombardia (un testo di cui bisognerebbe far imparare a memoria qualche paginaagli alunni delle scuole primarie).

Eppure, a chi legga con discernimento questa descrizionedella nostra terra e di chi la abita - appassionata almeno tanto quanto irta didati e di confronti statistici - non può sfuggire il fatto che Cattaneo consideralo stile di vita e le istituzioni lombarde come il prodotto spontaneo delle iniziativeprivate e della società: sia che analizzi il regime giuridico delle acque, costruito«senza intervento di principe» .... sia che descriva il gran tessuto delle fondazionisanitarie o assistenziali, le cosiddette «opere pie», erette dalla carità e dall'attenzioneper il prossimo da parte dei cittadini.

VIII. Bisogna muovere da questo essenziale datodi fatto - la vocazione dei lombardi al «privato» (individuale, o al più. «corporato»)- se si vuole gettare uno sguardo sul futuro, e cioè immaginare quale potrebbe essereil ruolo del nostro popolo nell'assetto economico e politico che si sta profilando.
In linea molto generale, la formazione di un mercatoeuropeo omogeneo, e la progressiva eliminazione, entro quest'area, di ostacoli ediscriminazioni, dovrebbe creare una condizione intimamente congeniale per il lombardo:un mondo ideale per chi, da secoli, sogna di potersi spostare, di dislocare le sueimprese, le sue attività, i suoi capitali, senza vincoli territoriali: per chi (insomma),pur essendo affezionato alla sua terra, è politicamente un «senza patria». Il grandemercato europeo unificato creerà certamente delle serie difficoltà per quella partepreponderante degli italiani che è abituata a vivere sotto lo scudo del protezionismoeconomico nazionale o regionale, e che mette in cima alle sue aspirazioni la «renditadi posizione» e la «rendita politica». Scatenerà, al contrario, i «lombards» e,quei cittadini che, nel bene e nel male, accettano l'ideale di vita «lombardo»:fatto di cosmopolitismo senza paure, di avventura e di rischio, ma non - qui stala discriminante verso un certo mondo «mediterraneo» - di collusione con il crimineper amore del profitto.

In un tale contesto è probabile che si rafforzino(anche sotto il profilo etico) i rapporti già intensi dell'economia e dell'imprenditorialombarde con quel1e dell'Europa centrale. Nella sua storia lo si è visto) la Lombardiaha sempre gravitato sul mondo germanico: questa naturale inter­connessione dovrebbeora diventare ancora più stretta, non solo sul piano degli scambi, degli investimentie della gestione delle risorse finanziarie, ma anche dal punto di vista di una verae propria nostra integrazione nell'area mitteleuropea.

Tale prospettiva è di grande rilievo strategico,perché si collega alla fase d'incertezza e di profonde trasformazioni in cui ilnostro continente sta inoltrandosi proprio in questi anni. La «depolarizzazione»dell'assetto internazionale, e soprattutto la sua causa prima, e cioè la crisi economico-politicain cui sono entrati l'impero sovietico e i suoi satelliti - è inutile nasconderselo- aprono prospettive di eccezionale portata per Il mondo germanico: in fondo allavia che abbiamo appena imboccato potrebbe esserci non solo l'unificazione delledue Germanie, ma un processo d'Integrazione pantedesca, legato all'esigenza storicadi «andare incontro» ai popoli slavi. La Ostpolitik non è un'invenzione del secondodopoguerra: è una grande costante della storia europea: è cominciata con la cavalleriacorazzata dell'Ordine Teutonico, potrebbe sfociare nella pacifica colonizzazioneeconomica e tecnologica del mondo slavo. E l'ipotesi sta in piedi anche se le «riforme»all'Est passeranno attraverso fasi alterne, o se falliranno, provocando contraccolpiautoritari e tragici collassi istituzionali. La Ostpolitik e l'unificazione tedescapotevano essere messe fuori gioco soltanto dalla presenza di un impero sovieticoautonomamente prospero e forte: un'illusione durata quarantacinque anni.

Se le cose dovessero andare effettivamente nelsenso in­dicato, allora è chiaro che il baricentro economico (e poi politico) dell'Europasi sposterebbe a Est del Reno. E la Pianura Padana - in particolare l'antico Lombardo-Veneto- si troverebbe in posizione privilegiata rispetto a quel baricentro. Invece cheil Settentrione d'Italia diventerebbe, di fatto, il Meridione dell' Europa germanica.Perché, una volta riunificata e diventata egemone economica del mondo slavo. laGermania sarebbe cosi forte da costituire il fattore unificante del continente.

C'è però un'altra eventualità da considerare. Ladifficoltà di armonizzare le abitudini dell'Italia mediterranea con le esigenzedi quella tendenzialmente mitteleuropea, nel quadro di un mercato continentale fortementecompetitivo, potrebbe accelerare il degrado del nostro già debole sistema politico(così restio ad autoriformarsi) e innescare processi di secessione e di aggregazionespontanea. Qualcuno, considerando il fenomeno crescente delle «leghe» locali, immaginache, nella futura Europa «delle regioni», potrebbe trovar posto una Padania organizzatae raccolta intorno ai lombardi, e «federata» con le altre parti d'Italia.

È un sogno affascinante. Ma, se l'esperienza storicainsegna qualche cosa, credo di aver già dimostrato che i lombardi non sembrano avermai avuto la vocazione dei creatori di aggregazioni politiche, dei fondatori diStati. Del resto basta constatare con quanta scarsa energia e fantasia abbiano gestitol'istituto regione da quando è stato creato. Non si è vista per esempio nessunainiziativa volta a mobilitare e organizzare le altre regioni della valle del Poper costituire un valido interlocutore nei confronti di un governo centrale semprepiù latitante e incapace.

Penso quindi che quanti temono la crescita della«Lega lombarda» possano dormire sonni tranquilli. Quei movimenti (soprattutto sesapranno «federarsi» in leghe inter-regionali) incideranno sull'elettorato, e modificherannoprobabilmente il panorama dei partiti di governo oggi esi­stente. Ma la frazioneeconomicamente più attiva (e quindi decisiva) dei lombardi, lungi dal mirare a conquistarela direzione dello Stato nazionale, tirerà a superarlo: coglierà le chances offertedall'integrazione europea, spostando oltre i confini nazionali i propri interessie le proprie energie. E, se avrà bisogno di protezioni e di alleanze politiche,le cercherà oltralpe.

IX. Questa linea di condotta, del resto, si imporràsubito per affrontare la più pressante esigenza infrastrutturale con cui i lombardidebbono misurarsi: la moltiplicazione dei valichi.
La valle Padana, pur essendo, dal punto di vistageoclimatico e antropologico, parte integrante dell' «Europa fredda», ha semprevisto ostacolate le sue relazioni con il Settentrione dalla catena alpina, e dallaimpervietà dei passi, transitabili perlopiù soltanto in una parte dell' anno. Glistorici hanno chiarito per esempio quali effetti abbia prodotto, già nel Medioevoper i traffici e l'economia della valle del Po, la maggiore accessibilità del valicodel San Gottardo, in seguito all' invenzione tecnologica di un ponte sulla goladi Schollenen sostenuto da catene di ferro assicurate nella roccia. (Un espedienteapplicato anche alle Torri di Fraele, sulla via d'Alemagna).

Alle difficoltà materiali si sono poi aggiunte,molto per tempo, quelle derivate dal monopolio del1a manutenzione e dallo sfruttamentoeconomico del controllo del transito. Si è visto, a suo luogo, come la prima voltain cui diverse città lombarde decisero di unire le loro forze fu quando ritenneronecessario combattere una guerra decennale contro Como, per sottrarre a quest'ultimala signoria sui valichi delle valli Bregaglia, di San Giacomo e Leventina. E siè visto anche come il problema dell'accesso ai gioghi alpini abbia continuato aessere cruciale per tutta l'età moderna, e abbia richiamato la cura di un'assiduapolitica stradale, specialmente sotto il dominio austriaco.

Nel secolo scorso l'ostacolo costituito dall'intransitabilitàdei valichi durante l'inverno cominciò a essere aggirato con la realizzazione deitrafori, e l' affiancamento delle strade ferrate alle carrozzabili: Ai giorni nostrisi poteva credere che lo sviluppo della libertà internazionale dei traffici rendesseirresistibile la tendenza a moltiplicare questi trafori stradali e ferroviari, eche le sole difficoltà consistessero nel costo elevato e talvolta nella fattibilitàtecnica di tali opere.

Invece si è dovuto constatare che le popolazioniinsediate sulla catena alpina (svizzeri e tirolesi) e i loro governi intendono porresostanziali limitazioni alla costruzione di nuovi tunnel sotto le Alpi, e più ingenerale alla crescita del traffico fra Nord e Sud. Ciò, sia al fine di privilegiarealcune regioni (e i loro abitanti), sia allo scopo di contenere i disagi prodottidal transito intenso dei mezzi, soprattutto stradali, su cui si muovono merci epersone. Trattandosi di Paesi nei quali l'industria del turismo è molto importante,si comprendono bene tali preoccupazioni ecologiche.

Ma è chiaro che l'avvenire dell'economia lombarda(e, più in generale, di quella padana) dipende dalla crescita delle relazioni discambio con il Nord: e una tale crescita esige che la catena alpina diventi quantopiù «permeabile» e materialmente possibile.

Gli amministratori pubblici della nostra regionedovrebbero collocare il problema dei trafori - di tutti i trafori possibili - edelle relative vie d'accesso in cima all'elenco dei loro obbiettivi permanenti e,per così dire, istituzionali. E non temere di mobilitare il capitale privato perrealizzare un'impresa così vasta.

Certo, esiste, in prospettiva, la possibilità diun insanabile conflitto d'interessi fra gli Stati alpini e le popolazioni dellavalle del Po. Se tale conflitto coinvolgesse soltanto queste due parti, sarebbescarsa la speranza di vederlo superato. Ma fortunatamente c'è in campo un altroe ben più poderoso interlocutore: l'economia dell'Europa centrale, per la qualela relazione con la Lombardia, pur interessante in sé, è soltanto il ponte versoi porti mediterranei. Molto difficilmente questo interlocutore rinuncerà a svilupparela sua espansione verso l'area mediterranea e verso il vicino Oriente, perché glielovietano gli interessi locali di contigue economie minori, alla cui prosperìtà contribuisceperaltro in misura decisiva.

Ecco perché ho sostenuto più sopra che i lombardi,e in particolare i loro ceti imprenditoriali, non hanno altra scelta razionale disponibileche integrarsi nell' area e nella mentalità mitteleuropea. È dall'inserimento, soprattuttofinanziario, in questa economia «forte» che verranno le risorse materiali e gliappoggi negoziali necessari per «abbassare» finalmente l'ostacolo delle Alpi e renderereale l'appartenenza della Lombardia alla vera Europa.

Ringrazio Giacomo Consalez ( portavoce nazionale di pro Lombardia indipendenza)


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